2000 libyke

Pubblicato il 25 Feb 2010


febbraio 2000: dieci anni sono passati,( e mi sembra comunque ieri) da questa prima edizione della Libike.
La ripropongo ora a ricordo di queste corse pazze,che ora non si fan più...



Nel cuore del Sahara, in mountain bike, a correre in piste tracciate nel vento e nella sabbia, che sembrano portare al nulla. E invece arrivano a sterminate valli circondate da montagne di sabbia e di roccie arenarie, canyon fra pareti di roccie tempestate di graffiti, pitture di animali e piante di migliaia di anni fa...

Il deserto libico comincia a tingersi di esotico gia all'altezza dell'oasi di Ghadames, che si raggiunge grazie alla pista asfaltata che porta da Tripoli verso sud attraversando il Sahel, ovvero la steppa ai confini del deserto vero e proprio. In questo territorio arido e vasto la desolazione è rotta di tanto in tanto dall'apparire fugace di qualche gruppo di case costruite accanto alla strada, con alberi radi a fornire un po' d'ombra e detriti ovunque intorno. Anche nel punto più sperduto, non manca il posto di controllo militare che sbarra la strada e verifica i transiti.

Nel pulman che scorre verso sud, in direzione Ghat, a 1200 km da Tripoli, siamo un eterogeneo gruppo di viaggiatori, tutti sbarcati dal volo dell'Alitalia Roma-Tripoli. Ora siamo assieme, tutti i partecipanti della gara nel deserto e parte dell'organizzazione: la P.P.O. di Patrizio Fiorini, il quale con i mezzi e la logistica è gia sul terreno di gara ad aspettarci.

Questa gara è alla sua terza edizione per quanto riguarda gli specialisti della maratona, mentre è invece alla prima per le bici: noi con le nostre mountain bike siamo quindi pionieri e cavie di questa particolare formula di gara, la cui caratteristica peculiare è che te la devi cavare da solo sia nel superare le difficoltà del deserto sia a trovare la strada buona, con l'orientamento e le note del rood-book, che ti viene consegnato alla partenza.

Pedalare forte assume un' importanza secondaria: non perdersi è essenziale, ma questo lo scopriremo in seguito. Per il momento si parla fra noi mentre osserviamo il paesaggio che scorre attraverso i finestrini, ci si confida e tutti minimizzano le proprie velleità agonistiche dichiarando dei molto approssimativi stati di forma.

Dopo una giornata di autobus ( 1.200 km, come si è detto ) arriviamo finalmente a Ghat, avamposto nell'estremo sud della Libia e porta d'ingresso dell'Akakus, comprensorio fatto di montagnee di roccie arenarie e vulcaniche, nelle cui innumerevoli valli si insinuano altissimi erg ( enormi dune di sabbia) portate e plasmate dai venti.

A Ghat, sopra la parte vecchia del paese, troneggia e fa da sentinella verso il deserto il forte, costruito dai turchi nella seconda metà dell'ottocento. Qui i primi europei che arrivarono furono gli inglesi Clapperton e Oudneh nel 1822. Per circa 80 anni vi rimasero i turchi fino a quando, nel 1914, non arrivarono gli italiani. La vita non doveva certamente essere semplice da queste parti. L' avamposto fu spesso assaltato da bande locali e si era sempre in pericolo di vita. Nel 1923 i senussi in rivolta ( integralisti islamici anticolonialisti ) condussero un assalto memorabile al forte di Ghat che, dopo settimane di assedi e combattimenti, capitolò. Fini in un bagno di sangue dopo assalti a colpi di scimitarra e baionetta.

Gli italiani riuscirono a reimpossessarsi del forte solo nel 1930 e lo persero definitivamente nel 1943, in seguito ai rovesci militari subiti ad opera degli inglesi lungo la fascia costiera della cirenaica. La spallata definitiva fu inferta dai meharisti ( truppe cammellate ) del generale francese Leclerc.

Arrivati a Ghat, e terminata la strada asfaltata, ci infiliamo in una delle tante vallate che caratterizzano l'Akakus. Dopo circa 20 km troviamo, avvolto nelle sabbie color rosa, il campo base: da qui inizierà la nostra avventura.

Lungo da nord a sud circa 200 km e largo una cinquantina, un territorio

grande quasi quanto la Sardegna, l'Akakus è un insieme di rocciai di arenaria e di sassi neri d'origine vulcanica, il tutto avvolto da un perenne strato di sabbia rosso ocra, che, a tratti, si accumula, portata dal vento, a formare immense dune, alte centinaia di metri: i già citati Erg.

Questo è il nostro campo di gara.

In effetti le gare sono 2: si può partecipare a piedi o in bici, e la formula non varia perchè conta solo lo spirito di autosufficenza e di orientamento per raggiungere il traguardo di giornata. Questa formula estrema, applicata nei luoghi più selvaggi del pianeta è ormai molto collaudata e utilizzata in svariate competizioni di successo dedicate ai maratoneti: basta pensare alla Desert Cup, maratona non stop di 162 km nel deserto della Giordania, con arrivo al favoloso sito archeologico di Petra ed alla massacrante Maratone de sables, mille partecipanti che corrono nel deserto marocchino per una settimana con uno zaino sulle spalle che contiene tutto ciò che necessita, acqua e cibi compresi che, per regolamento, deve essere portato appresso.

Queste corse estreme, quindi, a meta strada fra avventura da legionari e orientamento puro, hanno un nutrito stuolo di adepti e specialisti nel campo del podismo. Ma con la bici?

Nel mondo ciclistico le cose cambiano parecchio. Per sua indole il corridore in bicicletta non ama molto doversi districare con bussole e trip master, mentre è già impegnato al massimo a spingere sui pedali e a guidare magari su un terreno molto sconnesso. Le formule di gara dedicate alle bici, di solito, sposano le caratteristiche dei rally, con percorsi tracciati soprattutto nelle frazioni cronometrate.

Questo perché, se il terreno lo consente, la bici può viaggiare a velocità notevoli, mentre a piedi, sia che ti devi orientare sia che il percorso sia tracciato, la media non subisce notevoli variazioni. Noi ciclisti ( non tanti per la verità ) siamo quindi alla prima esperienza del genere.

Fondamentale risulta avere il contachilometri ben tarato con le note del rood book, ed a tale scopo ci facciamo segnalare un km esatto di deserto su cui tariamo i nostri ciclocomputer. Alcuni hanno addirittura montato sul manubrio il g.p.s., strumento prezioso che ti segnala la posizione esatta grazie alle coordinate impostate via satellite; roba da Parigi-Dakar! Personalmente mi limito ad organizzarmi un porta rood book da tenere fra attacco e manubrio, sperando di riuscire ad interpretare le note mentre si è in corsa, cosa tutt'altro che semplice se non si è abituati a farlo. Dopo un paio di tappe comincerò ad abituarmi anche a questo modo di correre: il segreto consiste nel leggere e memorizzare due note di seguito, ed andare avanti così, con sicurezza.

La prima tappa è di 42 km e non dovrebbero sorgere particolari difficoltà. Al breefing Patrizio Fiorini ce ne illustra le caratteristiche assicurandoci che i tratti poco pedalabili sono relativamente pochi e comunque minimizzabili con un buon orientamento e una felice scelta delle traiettorie più idonee per la bicicletta. Questo aspetto si rivelerà fondamentale e in breve tempo tutti noi diverremo espertissimi a riconoscere con un colpo d'occhio il terreno più idoneo a km di distanza, cercando così di evitare il più possibile la sabbia traditrice che prima ti frena come se andassi sulla melassa e poi ti costringe a portare la bici spingendola: il ciclista, a piedi, diventa immediatamente un animale lentissimo, e, se non si esce presto dalla sabbia, la tappa si trasforma in un calvario.

Fa ancora molto freddo alle 9 del mattino, quando ci schieriamo al via, ma coprirsi eccessivamente sarebbe comunque un errore: ancora pochi minuti ed il sole comincerà a salire, e con esso la temperatura. Scattiamo in gruppo, ma dopo i primi km mi ritrovo solo in compagnia di Kurt Ploner. A tratti ci perdiamo di vista, in quanto spesso prendiamo piste diverse e quando mi volto indietro e non vedendolo penso di averlo staccato, lui invece mi ricompare minuscolo alcuni km di lato: difficile capire sia realmente in vantaggio in questo momento, ma ai controlli timbro arrivo comunque per primo. Qui hai diritto ad avere un litro d'acqua che puoi prendere o meno: l'importante è non lasciare contenitori vuoti o altro materiale inquinante lungo il percorso, perchè se scoperto perderai la cauzione depositata. Dopo il secondo controllo, mi si apre davanti una vallata immensa di sabbia infarcita di sassi neri di tutte le dimensioni. Il cap mi dice di andare a 90 gradi e di infilarmi fra il tacco dell'altopiano e gli Erg che si intravedono a una decina di km.

Pedalando e spingendo la bici dove il terreno cede, dopo circa un'ora mi ritrovo in mezzo a montagne di sabbia: roba da farsi prendere dal panico se non fosse che, stagliato in lontananza, ma visibile e quindi come se raggiunto, non notassi l'arco di arrivo. Vincevo la tappa arrivando solitario. Kurt Ploner, attardato da una foratura, spuntava dal deserto 17 minuti dopo, mentre terzo, dopo quasi tre quarti d'ora, giungeva Lenzi: prima di lui arrivava il vincitore fra i podisti: Marco Olmo.

Montiamo le tende e si passa il pomeriggio ad osservare il più che meraviglioso scenario sahariano che ci circonda: un cielo stellato ed una notte illuminata dalla luna piena ci accompagneranno per tutto l'Akakus. Siamo comunque in un altopiano, a quasi mille metri sul livello del mare, e sul tardi il freddo si fa sentire. Ma è soprattutto all'alba, quando alle sei e mezzo ci si deve alzare per smontare tutto, che la temperatura prossima a zero gradi ti invoglia a rimanere accucciato dentro il sacco a pelo.

Ma devi fare colazione e prepararti alla partenza di giornata e poi con i primi movimenti il peggio passa e con le luci dell'alba ti senti pronto a ripartire.

La 2 tappa non promette niente di buono, per noi con le bici. Almeno per chi in bici vorrebbe pedalare... I 42 km che ci aspettano sono infatti un insieme di Erg e di vallate con fondo però sempre sabbioso: questo è ciò che scoprirò strada facendo. Inoltre, al breefing ci spiegano che il percorso passa vicino al confine, per cui se sbagliamo strada finiamo in Algeria. “Che succede, in tal caso, se ci trova qualche pattuglia militare?” chiede qualcuno. “Potrebbero prendervi a fucilate” é la stringata risposta. “AHH va bene, giusto per saperlo!”.

All'inizio la sabbia resta abbastanza compatta e, con il solito Kurt, prendiamo solitari la via del deserto, ora avvicinandoci ora perdendoci di vista: difficile capire chi sia in vantaggio. Poi mi infilo a percorrere il centro di una vallata larga diversi km, dove il fondo sabbioso diviene sempre meno compatto fino ad appiedarmi. Mi volto indietro, mentre corro spingendo la bici, per vedere dov'è Kurt ma non lo vedo, sembra sparito nel nulla: intorno solo un mare di sabbia e i tacchi degli altopiani che si stagliano a decine di km. Continuo ad andare avanti cercando il modo più redditizio di portare la bici. Per fortuna la mia Monolite in carbonio pesa meno di otto chili, ma questo non impedisce comunque alla sabbia di entrare dentro le scarpe da mountain bike e comprimere i piedi che sembrano voler scoppiare.

All'improvviso vedo Kurt: passavo il mio tempo a voltarmi per cercarlo ed invece lui è un puntino piccolo davanti a me... da dove è passato? Di certo è entrato nella vallata lungo il fianco ovest, dove ha trovato un terreno più scorrevole ed ora anche lui va a piedi, ma con quale passo! Ritrovo le sue orme, a fianco del solco delle ruote della bici e provo a copiarle, ma la sua falcata è più lunga di una decina di cm almeno... Ciao Kurt, ci rivedremo all'arrivo!

Per circa tre ore e più di 20 km le cose non cambieranno: dune immense ovunque e sabbia dove affondi fino al polpaccio. Uno di questi comincia a farmi male ed alla fine sarò costretto a fermarmi ogni 10 minuti per togliermi le scarpe e svuotarle dai granelli che mi pressano i piedi. La cosa più logica sarebbe di andare scalzi se non fosse che in questo mare di sabbia galleggiano spine di ogni genere: singolari certi dischetti lignei di circa un cm infarciti di aculei che si piantano nei copertoni della bici spinta a mano.

Ogni 100 metri occorre staccarne di nuovi, prima che riescano a passare e provocare una foratura. Di andare scalzi quindi non se ne parla nemmeno. Ecco perché stamani Ploner è partito con scarpe alte da trekking : lui sapeva ! Dopo tanto tribolare e dopo essermi anche perso una volta, sorpassato da plotoni di maratoneti che, correre per correre, vanno senz'altro meglio di me che spingo una bici, arrivo finalmente in vista dell'arco naturale di Fozzigiaren, traguardo della tappa odierna.

Attorniato da immense e morbide dune, quest'arco di roccia arenaria, alto svariate decine di metri è senza dubbio il piu maestoso di tutto il Sahara. La valle che si apre dietro di lui e le dune che si stagliano in lontananza ne fanno un posto straordinario e dall'aria mistica. Non per niente sono venuti fin qui, in questo remoto posto difficilmente raggiungibile, per girare diversi esterni del film “il Paziente Inglese”.

Tagliato il traguardo mi siedo su una duna a riposare; Kurt già lo fa da quasi 50 minuti. Pian piano arriveranno tutti, con tempi variabili ma comunque misurabili più con la clessidra ( tanto per ricordare la sabbia! ) che con il cronometro.

In questa tappa, nella quale l'organizzatore Patrizio Fiorini ha forse sopravvalutato le capacità di scorrevolezza delle bici su terreno molto sabbioso appiedandoci di fattotutti, si sono quindi giocate le mie possibilita di vincere la corsa su Kurt: riprendere la mezz'ora di svantaggio in due tappe, sarà impresa dura, salvo imprevisti. Ma quelli non mancheranno, e il finale darà un responso neanche ipotizzabile al momento!

Intanto ci troviamo a passare la sera in questo angolo di deserto: stavolta, a tappa finita, non è come ieri, perchè oggi le gambe fanno male davvero dopo aver passato tutto quel tempo a furia trascinarsi sulla sabbia molle. A me soprattutto è come se mi avessero morso i polpacci! Il luogo dove siamo accampati è però un incanto e non fare un giro a piedi sarebbe davvero imperdonabile. Tutto intorno all'arco si aprono delle vallate e le roccie, scolpite dal vento e di tutte le forme, celano grotte e passaggi che ti si aprono davanti all'improvviso. In molte pareti appaiono scolpite o disegnate scene di caccia o animali di 7/10.000 anni fa. Questi graffiti sono arrivati quasi intatti fino a noi, immagini millenarie di un popolo che non conosceva la scrittura.

I leggendari Garamanti di cui parlava Erodo. Vivevano in questo deserto migliaia di anni fa, quando c'erano foreste immense, scorrevano i fiumi e le praterie erano popolate dagli animali selvatici. Questo luogo è un immenso museo archeologico all'aperto: scomodo ad arrivarci ma mai chiuso! Dopo la solita ottima cena che l'organizzazione ci prepara e serve nell'apposita tenda, tutti a dormire, in una notte senza oscurità: la luna brilla alta e piena offrendoci un panorama stellato da mille e una notte. Il giorno dopo abbiamo una novità: viste le difficoltà su sabbia per le bici, l'organizzazione decide di tagliare i primi 40 dei 90 km. previsti. Trasferimento sui fuoristrada e partenza posticipata più a nord.

Partiamo da una pista con davanti a noi un terreno compatto e sassoso, senza particolari riferimenti: un forte vento da sud, il Ghibli, ci spinge a favore, Io ed il solito Kurt in testa ed anche questa volta, lo perdo di vista dopo un pò. Stavolta si va via velocissimi ma facendo attenzione a non mettere le ruote in nessuna delle diverse piste che corrono parallele: è preferibile andare sempre fuoripista, dove il terreno è si infarcito di sassi di tutte le dimensioni, mediamente grossi come noci di cocco, ma in compenso è duro e la bici riesce a prendere una gran velocità. Si tratta di avere occhio e schivare per tempo crepacci, buche e macigni. A un tratto il ciclo computer segna zero. Cerco di farlo riavviare, perché è fondamentale sapere quanti km fai. Con orrore mi accorgo che manca il sensore sulla forcella. Continuo l'orientamento valutando ad occhio distanze e gradi. Passo il primo dei due controlli: Kurt non si è visto. Insisto seguendo per una decina di km la rotta a 340 gradi, poi comincio a virare verso ovest, come dicono le note, a 290 gradi dove, però, dovrei trovare il secondo controllo timbro.

Mi guardo intorno ed in lontananza, invece del controllo orario, vedo il solito minuscolo puntino: Kurt Ploner è sulle mie tracce e, immagino, pedalando a tutto vapore.

Si apre alla fine una lunga vallata, in fondo alla quale si intravede la verde sagoma dell'arco di arrivo: in breve la raggiungo, seguito a pochi minuti da Kurt. In verità, resomi conto di aver saltato un timbro, vorrei tornare indietro a cercarlo, ma qualcuno mi assicura che non ne vale la pena, essendo la penalizzazione di due ore, tempo più che sufficiente per lasciare la classifica cosi come è, avendolo saltato pure Kurt.

Si, due ore. Quando finalmente arrivano tutti, è subito un gran cercare il regolamento e... cosa salta fuori? La penalizzazione è di sei ore! Sei ore, tre volte il tempo che ci vuole per concludere l'intera tappa. L'esterrefatto Lillo Lenzi si ritrova in testa, io e Kurt nelle retrovie. Avremmo mancato il timbro si e no per 2 km.

Chissà a cosa stava pensando Patrizio Fiorini quando ha fatto il regolamento! Forse alle problematiche dei maratoneti, non certo a quelle delle bici.

Ci apprestiamo a montare l'ultimo campo. Siamo in una conca sabbiosa protetti da due grossi rocciai anneriti dal sole. Il terreno tutto’intorno è pieno di sassi dalle forme intriganti e fantasiose. Molti si rivelano dei geodi, vuoti all'interno. Ne raccolgo diversi, per i quali che poi all'aeroporto a Tripoli gli addetti alla sicurezza mi faranno parecchie storie: non vorrà prendere a sassate i passeggeri dell'aereo ?

Arrivano anche i libici che per tutta la durata del rally ci hanno accompagnati.

Sui loro fuoristrada non manca mai qualche tronco con rami secchi e sterpaglie caricati sul tetto. La notte il fuoco è un rito importante, ma non è facile trovare legna al momento. Quando ci si muove occorre essere previdenti e raccogliere cio che si trova per strada. Specie attraversando gli Ouadi ( passaggi di antichi fiumi ) è facile incappare in arbusti secchi . Allora si caricano per la sera, per fare il fuoco e preparare il the nel deserto.

L'ultimo giorno dobbiamo correre la tappa più impegnativa, soprattutto per l'orientamento. Leggendo le note non passano due km senza cambiare rotta. Ora a 340 gradi, poi a 20 gradi e quindi di nuovo a 320. Al breefing Fiorini è poi molto esplicito: fate attenzione o vi perdete! Partiamo su un terreno abbastanza duro anche se la sabbia è comunque un pò ovunque e pronta a tradire. Siamo diventati però esperti a valutare il terreno davanti a km di distanza e i tratti da fare a piedi alla fine si ridurranno a poche centinaia di metri. Come al solito vado via deciso e arriverò solitario al traguardo. Un pò di apprensione solo nei km finali quando, ritrovatomi nella convergenza di diversi Canyons, tribolerò a trovare quello giusto. Kurt Ploner, sulle mie tracce ed arrivato in quel punto dopo di me, vedendo all'improvviso apparire una moltitudine di segni di gomme sulla sabbia ha cominciato a preoccuparsi: pensava fosse tutto il gruppo di ciclisti misteriosamente arrivato fino a li prima di lui. Ma ero solo io che andavo e tornavo avanti ed indietro, per verificare il giusto C.A.P. ( posizione riferita con la bussola ).

Finiva cosi questa mia prima ( con la bici ) esperienza di gare nel deserto . Personalmente, visto che siamo in Libia potrei riutilizzare l'anonima frase scritta nella battaglia perduta di El Alamein “mancò la fortuna, non il valore” ma che importa, in fondo...

E' stata un'esperienza veramente interessante e spero che leggendo le mie vicissitudini venga la voglia anche a qualcuno di voi di andare a prendere... un The nel deserto.